mercoledì 17 giugno 2015

Violenza e baby gang: una ferita aperta

Giovedì 11 giugno sera, intorno alle 22, un controllore su un passante ferroviario nell'area del milanese chiede ad alcuni passeggeri di esibire il biglietto. Tra questi vi è un gruppo di tre sudamericani, di cui due senza biglietto. Conosciamo bene il violento esito della vicenda, a cui è stata data ampia copertura  mediatica: uno dei ragazzi – tra i 19 e i venti anni – colpisce il controllore al braccio con un machete, quasi amputandoglielo. Si scopre poco dopo che i tre sono membri della gang Mara 13, o Mara Salvatrucha.
Fatti come questo suscitano paura e sgomento, insieme ad una serie di domande più profonde sull'origine del fenomeno della criminalità giovanile, sulla ragione di questa sproporzionata violenza e sulle possibili soluzioni.
Nel tentativo di dare e darci alcune risposte, siamo andati ad indagare su cosa la ricerca accademica abbia da offrire sul tema delle baby gangs (o youth gangs) ed abbiamo trovato una realtà assai più complessa e variegata di quella che i sensazionalistici mezzi di informazione tendono a presentare. Certo, trattandosi in questo caso di maggiorenni, seppur di poco, sembrerebbe fuori luogo, ma la definizione di baby gang copre in realtà gruppi criminali i cui appartenenti hanno un'età compresa tra i dodici e i ventiquattro anni. Ci siamo prevalentemente avvalsi di uno studio empirico di Uberto Gatti (in collaborazione con altri accademici italiani) su una gang giovanile genovese attiva nel quartiere Sperone e di una tesi del corso di alta specializzazione in materia di criminologia applicata, patrocinato dalla Regione Piemonte. Stando alla situazione sul territorio italiano, il primo elemento che colpisce in queste analisi sta nella fondamentale differenza tra le gang i cui membri sono di origine italiana e quelle di altre etnie, fondata su differenti retroterra culturali. Essenzialmente, la violenza, anche quella più bruta, ha un ruolo molto più centrale nelle gang di importazione come Mara 13, saldamente legate al mondo del crimine internazionale.
Quale può essere allora la risposta delle istituzioni davanti a fenomeni di tale portata e complessità, che minano alla nostra sicurezza e rischiano di coinvolgere i nostri stessi figli? Dobbiamo infatti notare che l'etnia dei membri di queste gangs è sempre meno una discriminante. Certamente la ricerca di una soluzione non è aiutata dall'assenza di un ampio e sistematico studio delle bande giovanili in Italia, come sottolinea Gatti. Ciò che di positivo emerge è la presenza fondamentale di educatori di strada, che entrano in un rapporto di fiducia con i ragazzi (si veda il pluripremiato documentario The Interrupters, di S. James e A. Kotlowitz) e organizzano attività ricreative e formative. Per quanto necessario e positivo, tale strumento non risulta sufficiente a contrastare il fenomeno e mira piuttosto ad aprire la mente dei ragazzi a futuri alternativi a quelli della vita criminale. In particolare, gli sforzi mirati all'inserimento dei membri delle bande nel mondo del lavoro vengono minati dalla discontinuità nella partecipazione, interrotta appunto da attività illecite, dalle quali gli educatori vengono “protetti”, tenuti all'oscuro, in quanto persone a cui i membri si affezionano.
Se da una parte le istituzioni dovrebbero ripensare il territorio urbano per evitare quelle concentrazioni geografiche di povertà e disagio in cui queste bande nascono, dall’altra il mondo delle associazioni può essere di supporto anche attraverso i programmi di prevenzione della dispersione scolastica e di tutte quelle forme di disagio di cui questi ragazzi sono sempre protagonisti.
Parliamo delle iniziative formative, campagne di sensibilizzazione, progetti di recupero e reinserimento sociale, attività di volontariato e laboratori artistici finalizzati al potenziamento dei talenti dei singoli, a scuola, nei centri di aggregazione giovanile e nelle strade. Per questo la scuola può allora contare su “La Terza Italia”, come ci ricorda la recente pubblicazione del Garante dell’Infanzia. Quella Italia che spesso lavora gratuitamente in modo sommerso, senza risvolti mediatici ed in grado di salvare i giovani ai margini e non respingerli poiché incompatibili con una certa idea di studente.
#chiediloanoi



Fabio I. Martinenghi

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