venerdì 10 luglio 2015

Intervista al Prof. Zeni, preside milanese, su "La Buona Scuola"


Visto le accese polemiche che hanno accompagnato e accompagneranno la Buona Scuola, abbiamo chiesto che cosa ne pensasse al Prof. Zeni, da tre anni Dirigente scolastico del Liceo Statale Carlo Tenca (1500 alunni) e dell'Istituto di Istruzione Superiore Severi-Correnti (1100 studenti), e precedentemente docente di Matematica e Fisica al Liceo Classico Parini (precario per i primi 11 anni di insegnamento).


Alla luce della sua carriera da dirigente, quali sono le sue impressioni positive e negative riguardo a questa nuova legge?
In linea di principio la valuto positivamente, non perché non sia perfettibile, ma perché introduce alcuni punti di reale novità nel sistema scolastico italiano.
In primis un elemento nuovo e qualitativamente positivo è il fatto che le scuole nella loro autonomia possano selezionare i docenti (dell’organico dell’autonomia) partendo dal loro curriculum e da un colloquio, e non secondo criteri di pura graduatoria. I docenti (che vengono assunti dallo Stato e non dai presidi) sono individuati dalle scuole in armonia con il loro Piano dell'Offerta Formativa (POF) e secondo criteri che vengono pubblicamente comunicati. Questo è il punto principale ed quello su cui si scatena l'ostilità sindacale.  L’intensità della reazione dei sindacati contro questa legge  non sarebbe altrimenti comprensibile se non nella volontà di impedire che, anche limitatamente al caso dell'organico dell’autonomia, si possano introdurre metodi di individuazione dei docenti diversi dal meccanismo delle graduatorie. Le graduatorie sono il core business del sindacato, e più il sistema è articolato e complesso più esso genera un'enorme rendita di consulenze, tessere, distacchi, contenziosi e piccole e grandi ingerenze. Si vuole impedire che si introduca quella che si rivelerà essere “una buona pratica” e che inevitabilmente porterà nel tempo a mettere in discussione l’intero impianto delle graduatorie.

Il secondo elemento positivo e nuovo è l'introduzione del concetto di merito per riconoscere e premiare i docenti che esprimono la migliore professionalità, anche se avrei preferito la versione che era presente nelle prime stesure del disegno di legge. Inizialmente si era prospettato che fosse l’avanzamento di carriera del docente  ad essere incardinato sul merito e non sulla semplice anzianità di servizio come accade ora; nella legge approvata il merito viene invece introdotto mediante un bonus monetario che viene annualmente attribuito ai docenti migliori da parte del preside. 
Complessivamente, anche se ci sono aspetti che potranno essere migliorati, ciò che conta è che questi elementi di novità siano stati introdotti.  Copernico a suo tempo non è stato importante per il suo modello cosmologico  ma perché ha sdoganato la possibilità di poterne pensare un altro rispetto a quello Tolemaico. Oggi siamo in una situazione similare.
Ad ogni modo, sono sempre dell'idea che la cartina al tornasole della riforma sarà l'applicazione pratica, in cui si vedrà se quello che stiamo dicendo sarà positivo o negativo.


Appunto, secondo lei questa è una riforma giudicabile sulla carta, oppure bisognerebbe aspettare che sia in vigore? Una delle obiezioni più sensate a questa legge è infatti che rischi di favorire clientelismo e nepotismo.
Questo tipo di obiezione è facile da trasmettere al grande pubblico e magari riesce anche a suscitare indignazione, ma non vedo cosa c'entri con la riforma in discussione. Io in quanto dirigente, secondo criteri che verranno resi pubblici, individuerò coerentemente col POF i docenti, già assunti dallo Stato, e me ne assumerò la responsabilità. Ovviamente rimane un margine di discrezionalità, ma questa sarà ben individuata; se prenderò (come preside) delle scelte sbagliate, sarò io a risponderne.
E’ sempre possibile applicare un pregiudizio di sospetto ad ogni ambito decisionale, ma l’ipotesi di partenza non può essere solo quella della sfiducia e pensare unicamente a come legare le mani ai presidi piuttosto che a investire sulla loro responsabilità e sul loro operato. Anche perché una cosa che viene sempre taciuta è che ai presidi hanno già dato tutte le responsabilità. Il preside è dirigente di una piccola pubblica amministrazione e se ne occupa e ne risponde sotto tutti gli aspetti, mentre usualmente i dirigenti nelle altre pubbliche amministrazioni seguono e si occupano solamente di un singolo aspetto della loro amministrazione. È allora importante che oltre a queste responsabilità, si diano ai dirigenti scolastici anche gli strumenti per poterle esercitare e la Buona Scuola va in questa direzione.
Un'ultima specifica su questo punto. Quali sono gli incentivi – economici e non – che i presidi hanno per comportarsi in modo virtuoso invece che clientelare, come da obiezioni?
Innanzitutto la retribuzione di un dirigente è già adesso legata in parte al risultato e quando verrà introdotta la valutazione del dirigente la retribuzione potrà essere modulata in maniera differenziata a seconda del raggiungimento di alcuni obiettivi. Comunque il nostro stipendio è già articolato in questo modo ed è giusto che l’operato del dirigente sia valutato, come è giusto che siano valutati i risultati di tutto il sistema scolastico.
La scuola, come ogni sistema complesso, può sempre essere valutata e negarlo è un illusione infantile. Molti insegnanti contestano la possibilità di essere valutati ma dimenticano che quando tutti noi docenti abbiamo iniziato il nostro lavoro e siamo entrati in classe per la prima volta, ciascuno con la propria laurea e non dopo un percorso decennale di formazione alla valutazione, abbiamo subito cominciato a mettere i voti agli studenti. Nessuno si sarebbe mai sognato di obiettare: “Come ti permetti di valutare tu che non l'hai mai fatto?”.
Tutto si può valutare. La valutazione va introdotta, poi si va per via sperimentale e il sistema si migliora nel tempo.
Dal momento che parliamo di merito e valutazione, sarebbe favorevole ad allocare i fondi alle diverse scuole in base a criteri di questo tipo?
La Sua domanda va nella direzione del buono scuola, ogni allievo porta con se un buono che spende nella scuola che sceglie e se una scuola perde allievi in modo significativo, a causa della cattiva conduzione, si riducono i fondi destinati a questa.
Ma gli stipendi dei dirigenti, dei docenti e del personale sono pagati dal Ministero e non transitano sul bilancio della singola scuola. I fondi che il ministero eroga a ogni scuola invece non sono tanti e servono a provvedere al suo funzionamento. Può essere certamente valutato l'impiego efficiente di tali fondi, ma non c’è margine per modulare tali fondi in maniera differenziata.
Comunque questo è un discorso complesso e radicalmente nuovo, andrebbe trattato più ampiamente.


Un'ultima domanda, cosa ne pensa dell'introduzione del finanziamento dei privati alle scuole con tetto di 100.000 euro?
Penso che in linea di principio non ci sia niente di male nel fatto che i soggetti del territorio – perché quando si parla di aziende sembra si voglia evidenziare un aspetto negativo – possano contribuire, anche localmente, allo sviluppo di una scuola. Come sempre, il vero problema di queste cose è la trasparenza.
Se la trasparenza è garantita trovo naturale che le realtà del territorio vogliano promuovere lo sviluppo di certe competenze e capacità in coerenza col contesto economico-sociale in cui quella determinata scuola è inserita. E’ la trasparenza lo strumento che impedisce che tali fondi promuovano secondi fini.

Io spero che tutte le parti coinvolte, ora che la legge è passata, vogliano interpretarla in maniera costruttiva  perché qualsiasi testo, bello o brutto che sia, con una volontà destruens, diventa nullo. Confido che al di là delle polemiche, il mondo della scuola cerchi di utilizzare al meglio gli aspetti positivi che questa riforma porta

La ringraziamo per la sua disponibilità e il suo tempo e le auguriamo delle buone vacanze, quando arriveranno.  


Fabio I. Martinenghi

lunedì 6 luglio 2015

Grecia e Europa, quando a pagare il prezzo della crisi sono anche i bambini

Negli ultimi giorni si è parlato moltissimo – e legittimamente – della situazione greca, il più problematico dei paesi della UE, il cui destino sembra essere legato a quello della Unione stessa. Oggi ha vinto il “no” nel referendum relativo all'accordo coi creditori della Grecia, Varoufakis sì è dimesso ed è impossibile predire cosa accadrà ora.
Ciò che conosciamo ormai a memoria, ahimé, sono invece i drammatici livelli di disoccupazione (20,4%) e disoccupazione giovanile (56,9%) che segnano le Grecia – con un'Italia che si muove pericolosamente a distanza ravvicinata, con i rispettivi tassi al 12,3% e 43,3%.
Contribuiscono a dare un quadro più completo della situazione greca la proporzione della popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale, che è stimata al 35,7%, cioè oltre un terzo della popolazione. Il 38.1% di questi, sono bambini. Quindi, essendo la popolazione greca di 10.815.197, i bambini a rischio sarebbero circa 1.471.051, quasi un milione e mezzo.
People at risk of poverty 
or social exclusion, by age group,  2013

Tale situazione deriva specialmente dall'instabilità lavorativa dei genitori, che si interfacciano con un mercato del lavoro che registra la più alta percentuale europea di persone dalla intensità lavorativa molto bassa, che lavorano cioé molto meno di quanto potrebbero.
Un aspetto particolarmente preoccupante di questa crisi è quanto duramente abbia colpito i bambini, come stato evidenziato da fonti autorevoli quali Caritas, Unicef e Eurostat. Unicef riporta, infatti, che a partire dal 2008, anno di inizio della Grande Recessione, il numero di bambini che sono caduti sotto la soglia di povertà nei paesi più sviluppati ammonterebbe a 2.6 milioni. In Grecia l'incremento nel numero di bambini poveri è superiore al 50%. Nel 2013 un articolo del New York Times denunciava una situazione drammatica nelle scuole, riportando la testimonianza del personale di una scuola elementare ateniese, che assisteva a casi di malnutrizione almeno nel 60% degli studenti. È importante notare che, come è ormai stato consolidato dalla ricerca scientifica, la malnutrizione ha effettidevastanti sull'apprendimento presente e futuro del bambino.
Data la situazione drammatica, ci auguriamo che qualsivoglia sia l'esito di questa vicenda storicamente cruciale, questo porti ad una ripresa economica della Grecia (all'interno di una Europa più unita e democratica), la cui crisi finanziaria rischia di compromettere non solo la vita degli adulti del presente, ma anche quella degli adulti del futuro.
All’alba di una potenziale uscita della Grecia dall’Unione Europea, cosa dobbiamo raccontare ai nostri figli? Che alla sorgente della nostra civiltà occidentale, dove lo stesso nome “Europa” ha origine, viene negato un posto nella stessa? Oppure che questa crisi finanziaria è uno dei necessari passi del processo di crescita verso uno stato federale europeo, dove i Paesi più virtuosi siano da stimolo agli altri e impongano loro standard più elevati ad ogni livello, invece di soggiogarli sotto la loro egemonia economica? Noi pensiamo che quest’ultima sia la via da seguire e che i genitori di tutta Europa non vogliano un giorno spiegare ai loro figli come quel clima comunitario creato da progetti come Erasmus siano solo stati orpelli in un intricato gioco tra potenze del Vecchio Continente in declino sul panorama internazionale.
Che questa sia l’occasione di ripensare l’Unione Europea in senso più politico, così come lo spirito della Dichiarazione Schuman suggerì nel contesto post-bellico.




Fabio I. Martinenghi

mercoledì 1 luglio 2015

Obesità e sani stili di vita: progressi e margini di miglioramento


Expo 2015 è in corso e come sappiamo bene il tema dell’alimentazione, essendo al centro dell’esposizione universale, è oggi molto dibattuto. Siamo andati a visionare i dati prodotti dal sistema di sorveglianza nazionale, Okkio alla salute, per cercare di capire quale sia la situazione italiana sui temi di obesità infantile e sani stili di vita. Nel 2014 hanno partecipato all’iniziativa 2.672 classi, 48.426 bambini e 50.638 genitori. È stato rilevato che i bambini in sovrappeso sono il 20,9% e i bambini obesi sono il 9,8%.

Figura 1. Confronto obesità infantile (dati 2010 di Childhood Obesity Surveillance Initiative)
Se ci fossero dubbi sul fatto che siano risultati piuttosto negativi, basta dare uno sguardo al grafico della Figura 1 per superarli, nonostante si sia registrata una leggera ma costante diminuzione di obesità e sovrappeso infantili negli ultimi anni.
Sebbene possa essere un’opinione personale personale, trovo grave che, da una parte, il 18% dei bambini pratichi uno sport con una frequenza massima di un ora settimanale, dall’altra, che il 38% delle madri di bambini sovrappeso o obesi non consideri proprio figlio come tale e solo 41% dei genitori di quelli poco attivi riconosca la loro insufficiente attività fisica. A riconfermare quanto il coinvolgimento dei genitori possa essere una area di intervento efficace, troviamo il dato sul coinvolgimento dei genitori in iniziative alimentari. 

Figura 2. Informazioni sulla scuola, Okkio alla salute (2014)

Se infatti la scuola si è evidentemente adoperata nel fornire alimenti sani ai giovanissimi studenti (vedi Figura 2), altrettanto non si può dire sull’altro suddetto fronte, in cui non ci sono stati miglioramenti.
Le scuole hanno certamente una significativa responsabilità, specialmente perché il 75% di queste offre il servizio mensa. Tuttavia, sebbene necessario, questo non è un elemento sufficiente per dare la svolta decisiva sul fronte obesità infantile. Quanti di noi ricordano con nostalgia i tempi del “se non mangi la verdura…”? Pochi, credo, mentre ognuno si porta dietro i suoi piccoli traumi infantili aventi come teatro quei luoghi.
Sembra allora sensato, e noi di Cuore e Parole ne siamo convinti, che la politica educativa più efficace sia quella che coinvolga insieme genitori e figli, che imparando insieme possono stimolarsi a vicenda, scongiurando il rischio di trovarsi, i primi impegnati in assurde ed eremitiche diete estemporanee, i secondi a compromettersi la salute con cibo spazzatura.
In tale direzione abbiamo infatti cercato di muoverci con l’iniziativa nazionale Scrivo come mangio! un vero e proprio percorso di educazione alimentare che conduce alla realizzazione di opere artistiche, grazie al supporto del gioco-guida ritirabile gratuitamente nei negozi di abbigliamento under 16 Monnalisa o contattando direttamente l'associazione. L’idea è infatti che i bambini, riportandosi la gioco-guida a casa, ne facciano partecipi padri e madri, rompendo così le mura limitanti delle classi. Nata nel 2007, l'iniziativa in un mese ha già coivolto oltre 1000 bambini, ciascuna dei quali ora attende con ansia di sapere se la sua opera verrà selezionata ed esposta in mostra a fine ottobre nel prestigioso Spazio Oberdan di Milano, in occasione della chiusura di EXPO2015.


Fabio I. Martinenghi

venerdì 26 giugno 2015

Dispersione scolastica, Italia allarmante: quale ruolo per scuola e Terzo settore?

Secondo uno studio commissionato da WeWorld a cui hanno preso parte le associazioni Giovanni Agnelli e Bruno Trentin, la situazione italiana riguardo all'abbandono scolastico non sarebbe delle più rosee. L'Unione Europea stima infatti che gli early school leavers in Italia costituiscano il 17% della loro popolazione. I parole povere, il 17% circa dei ragazzi italiani tra i 18 e i 24 anni  abbandona la scuola avendo conseguito al massimo la licenza media. 

Early School Leaving in percentuali (2013). Fonte: Eurostat
Il dato è significativo per varie ragioni. Innanzitutto, perché ci colloca in fondo alla classifica europea, e questo implica che si può (e si deve) fare meglio. In secondo luogo, perché  la Commissione Europea stima che “Da qui al 2020 saranno creati 16 milioni di posti altamente qualificati, mentre i posti scarsamente qualificati scenderanno di 12 milioni”, complicando ulteriormente la situazione dei lavoratori non specializzati. Inoltre, tale dato rende irrealistico per noi il raggiungimento  dell'obbiettivo europeo sull’abbandono scolastico fissato al 10% entro il 2020, che si trasforma in più verosimile 15-16%. In terzo luogo, non solo queste percentuali sono segno di ferite aperte nel tessuto sociale, ma – come ogni piaga sociale – hanno anche ripercussioni economiche, tanto che azzerare la dispersione scolastica potrebbe avere un impatto sul PIL tra lo 1,4% e il 6,8%.
Non bisogna comunque dimenticare, sottolinea lo studio, che la situazione è migliorata rispetto al 25,3% di early school leavers del 2000 (dati UE), anche se meno rispetto che in altri stati membri.
Tuttavia, questo 17% stimato dalla Commissione Europea, sostiene il Prof. Daniele Checchi – tra gli accademici coinvolti – sarebbe inferiore di almeno 10 punti percentuali rispetto all'effettivo abbandono precoce (30% circa), misurabile attraverso le iscrizioni scolastiche.
L'obiettivo dello studio in questione, “LOST. DISPERSIONE SCOLASTICA, il costo per la collettività e il ruolo di scuole e Terzo settore”, è quello di definire meglio il problema sul territorio italiano, in particolare nelle aree urbane metropolitane di Milano, Roma, Napoli e Palermo dove è stata analizzata una significativa porzione delle attività di contrasto alla dispersione scolastica di scuole ed enti no profit, anche tramite il metodo dell'intervista approfondita.
Come emerge dalle interviste, essendo le cause di questo fenomeno molteplici (da disabilità a problemi familiari), la soluzione non può essere semplicemente univoca. Servono allora soluzioni per ciascuno di queste cause: supporto alla disabilità, programmi di studio personalizzabili, contrasto della disaffezione allo studio,...
Anche la tempistica di intervento con tali soluzioni appare essere importante, risultando molto più efficace durante scuola secondaria di primo grado (o scuola media) rispetto che durante la secondaria di secondo grado (liceo e analoghi), dove ci “si limita quindi a un’azione di sostegno dei sopravviventi a scuola e di recupero (outreach) e risocializzazione di coloro che hanno già abbandonato la scuola”.
Allo stato attuale, concludono i ricercatori, tali soluzioni sono portate in modo dispersivo da un'azione scoordinata di scuole e associazioni, così da non agire – nella maggioranza dei casi – né in modo complementare né in modo sostitutivo, cioè né colmando reciprocamente le proprie lacune, né mettendosi in competizione le une con le altre.
Una maggiore sistematicità nell'intervento potrebbe così rendere ancora più efficace l'intervento degli enti coinvolti, che  – stima lo studio – “producono” 1,6 € per ogni euro investito, un effetto moltiplicativo del 60%, che deriva soprattutto dal lavoro volontario.
In tale ideale sinergia operativa, da una parte le istituzioni dovrebbero allocare le risorse in maniera disomogenea sul territorio, rispondendo ai diversi gradi di necessità delle varie aree, dall'altra, complementariamente, il Terzo settore – conveniamo con lo studio – potrebbe mettere a frutto la conoscenza delle specifiche problematiche locali per intervenire efficacemente a livello micro.

Noi del Terzo settore non dobbiamo stancarci di bussare alle porte delle istituzioni affinché raccolgano il nostro appello, a favore di una maggior complementarietà, e senza stancarci di portare avanti le nostre attività di contrasto al disagio giovanile.



Fabio I. Martinenghi

martedì 23 giugno 2015

Maturità, terza prova all'insegna delle "imbeccate" dei professori: regole e trasgressioni

Secondo un sondaggio di skuola.net, ripreso anche dal Corriere della sera, il 40% degli studenti che stanno oggi affrontando la terza prova della maturità, sanno già quali materie gli saranno chieste. Ovviamente sono i loro stessi professori a comunicargliele informalmente, contrariamente alle norme vigenti. Questo è in loro potere dal momento che la terza è l’unica prova scritta non redatta dal direttamente dal Ministero. 
Sono infatti i professori della commissione d’esame, in parte interni all'istituto in cui l’esame di svolge e in parte esterni. Questo può significare due cose: o che gli insegnanti mancano al loro dovere di educatori aprendo una scorciatoia agli studenti proprio nel momento di massimo sforzo della loro carriera, o che i docenti riconoscono l’esistenza di una ingiustizia, di un malfunzionamento all'interno della terza prova di maturità e dunque, infrangendo le regole, provvedono a sanare questo torto a danno dei maturandi. In entrambe i casi il Ministero si trova davanti ad una domanda che esige una risposta. Come contrastare – accogliendo la prima ipotesi – la debolezza morale di docenti che si abbassano al livello della furbizia studentesca invece di ispirare i maturandi al valore del sacrifico fecondo di risultati? Come riformare l’esame di maturità – accogliendo la seconda – così da renderlo più giusto? In questo secondo caso, viene certo da chiedersi come le precedenti generazioni di studenti, penso a chi oggi ha tra i 40 e i 50 anni, abbiano potuto sopravvivere alla maturità pur essendo estranei a questo genere di aiuti. La risposta non è poi molto difficile: la terza prova fu introdotta da Luigi Berlinguer nel 1997 con la legge 425. Non è dunque una parte del ben più storicamente affermato esame di maturità, ad opera di Giovanni Gentile (1923), ma un aggiunta posteriore. Forse che sia stato un errore?
Se da una parte sembra importante verificare la capacità da parte dello studente di esporre in chiara e sintetica forma scritta le nozioni imparate durante l’anno, dall'altra, non si vede la necessità di tenere nell'ombra la scelta delle materie in esamine. L’intento è ovvio, obbligare i maturandi ad un ripasso completo del programma di quinta liceo. Tuttavia, ciò è già richiesto per affrontare la prova orale. Dunque, la puntuale valutazione sulle abilità di sintesi e uso del linguaggio scritto proprie della terza prova rischia di essere compromessa dalla “lotteria delle materie”, spesso truccata. A rendere questa procedura insensata è proprio la presenza di un esame orale che già richiede la suddetta completa conoscenza del programma, offrendo inoltre un pausa superiore ai tre giorni che separano seconda e terza prova. Ai maturandi è così concessa un’ultima revisione degli appunti.
Ipotizzando che le materie della terza prova fossero per legge rese note, in termini di conoscenze e competenze richieste non vi sarebbe alcuna differenza con il corrente Esame di Stato. Il programma andrebbe conosciuto interamente e preparato durante il corso di tutto l’anno. Si sottrarrebbe tuttavia ai docenti l’arbitrio di rivelare le materie d’esame, elemento di ingiusta diseguaglianza tra i maturandi di tutta Italia.
Il sincero auspicio è che si possa giungere ad un esame di maturità che vada oltre la formalità, diventando realmente uguale per tutti e dando a ciascuno la possibilità di dimostrare la propria preparazione. Bisogna infatti ricordare che un voto ingiusto può avere forte impatto sull'ammissione ad alcune università e quindi sulla vita degli studenti.



Fabio I. Martinenghi

lunedì 22 giugno 2015

Polemica di Umberto Eco sui social: usare internet come fonte

Le dure parole che Umberto Eco ha dedicato a internet come strumento di informazione – chiunque abbia utilizzato un social negli ultimi giorni ne è di certo a conoscenza – hanno fatto molto parlare e scrivere, sia su carta che in rete. Queste le frasi incriminate, rivolte ai giornalisti dopo aver ricevuto la laurea honoris causa in Comunicazione e Cultura dei Media all’Università di Torino: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Di solito venivano subito messi a tacere, ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel".
Inevitabilmente, queste affermazioni hanno suscitato un ampio dibattito sulla natura stessa dell’informazione e di internet, caro a noi di Cuore e Parole, che cerchiamo di promuoverne un corretto utilizzo, dando consapevolezza ai ragazzi delle sue potenzialità e dei rischi a cui può esporli. Cerchiamo allora di raccogliere alcune riflessioni che ci aiutino ad inquadrare il problema.
La cultura contemporanea, fortemente influenzata dal pensiero anglosassone, ha promosso la convinzione che esistano dei fatti (facts) oggettivi che costituiscono, nel loro insieme, il mondo reale, ossia quell’agglomerato coerente di cose a noi esterno e in cui viviamo. All’estremo opposto, Nietzsche aveva scritto: “Non esistono fatti, ma solo interpretazioni”. Davvero lo disse? Se sì, in che opera? Il piccolo lavoro che ho dovuto fare per recuperare la fonte di questa citazione, può essere più utile di complicate teorie.
Ricordavo questa citazione famosa dai miei studi di filosofia e, volendo inserirla nel post, l’ho cercata su Google per recuperarne la fonte. Nonostante abbia consultato siti affidabili come “filosofico.net”, del filosofo Fusaro, nei risultati italiani di Google non sono riuscito ad ottenere una risposta – invano ho anche consultato un libro su Google Books. Ho dovuto allora, non senza perplessità, effettuare la stessa ricerca in lingua inglese; solo allora ho parzialmente avuto successo. L’enciclopedia filosofica dell’Università di Stanford (“plato.stanford.edu”) – una fonte molto autorevole – riportava i quaderni di Nietzsche del 1880 come fonte. Rimane l’insoddisfazione di aver trovato un solo sito, ma continuando la ricerca in inglese sono approdato a www.theperspectivesofnietzsche.com, che rimandava all’opera Nachlass, di cui ignoravo l’esistenza. Mi è venuta quindi un’idea: ritraduco la frase in questione in tedesco ed effettuo poi la ricerca. Dopo aver trovato la corretta forma della frase in tedesco, ho trovato conferme su quella fonte, scoprendo inoltre che il termine Nachlass indica le raccolte di quaderni e appunti che un autore lascia alla sua morte. Tutto torna e posso allora riportare (con maggior sicurezza) la citazione in forma completa:

“Non esistono fatti, ma solo interpretazioni” (Friedrich Nietzsche, Nachlass, KSA 12: 7[60])

Possiamo allora tornare ad Eco e capire come internet sia un potentissimo amplificatore. In quanto tale, è uno strumento nelle mani della nostra libertà. Può dare vita a forme di resistenza ai regimi autocratici così come può amplificare notizie clamorosamente false. Sta allora a ciascun utente confrontare diverse fonti (tutte a portata di clic) ed imparare con l’esperienza e la conoscenza di chi le redige a fidarsi più di alcune rispetto ad altre secondo una gerarchia mai definitiva.


Fabio I. Martinenghi

mercoledì 17 giugno 2015

Violenza e baby gang: una ferita aperta

Giovedì 11 giugno sera, intorno alle 22, un controllore su un passante ferroviario nell'area del milanese chiede ad alcuni passeggeri di esibire il biglietto. Tra questi vi è un gruppo di tre sudamericani, di cui due senza biglietto. Conosciamo bene il violento esito della vicenda, a cui è stata data ampia copertura  mediatica: uno dei ragazzi – tra i 19 e i venti anni – colpisce il controllore al braccio con un machete, quasi amputandoglielo. Si scopre poco dopo che i tre sono membri della gang Mara 13, o Mara Salvatrucha.
Fatti come questo suscitano paura e sgomento, insieme ad una serie di domande più profonde sull'origine del fenomeno della criminalità giovanile, sulla ragione di questa sproporzionata violenza e sulle possibili soluzioni.
Nel tentativo di dare e darci alcune risposte, siamo andati ad indagare su cosa la ricerca accademica abbia da offrire sul tema delle baby gangs (o youth gangs) ed abbiamo trovato una realtà assai più complessa e variegata di quella che i sensazionalistici mezzi di informazione tendono a presentare. Certo, trattandosi in questo caso di maggiorenni, seppur di poco, sembrerebbe fuori luogo, ma la definizione di baby gang copre in realtà gruppi criminali i cui appartenenti hanno un'età compresa tra i dodici e i ventiquattro anni. Ci siamo prevalentemente avvalsi di uno studio empirico di Uberto Gatti (in collaborazione con altri accademici italiani) su una gang giovanile genovese attiva nel quartiere Sperone e di una tesi del corso di alta specializzazione in materia di criminologia applicata, patrocinato dalla Regione Piemonte. Stando alla situazione sul territorio italiano, il primo elemento che colpisce in queste analisi sta nella fondamentale differenza tra le gang i cui membri sono di origine italiana e quelle di altre etnie, fondata su differenti retroterra culturali. Essenzialmente, la violenza, anche quella più bruta, ha un ruolo molto più centrale nelle gang di importazione come Mara 13, saldamente legate al mondo del crimine internazionale.
Quale può essere allora la risposta delle istituzioni davanti a fenomeni di tale portata e complessità, che minano alla nostra sicurezza e rischiano di coinvolgere i nostri stessi figli? Dobbiamo infatti notare che l'etnia dei membri di queste gangs è sempre meno una discriminante. Certamente la ricerca di una soluzione non è aiutata dall'assenza di un ampio e sistematico studio delle bande giovanili in Italia, come sottolinea Gatti. Ciò che di positivo emerge è la presenza fondamentale di educatori di strada, che entrano in un rapporto di fiducia con i ragazzi (si veda il pluripremiato documentario The Interrupters, di S. James e A. Kotlowitz) e organizzano attività ricreative e formative. Per quanto necessario e positivo, tale strumento non risulta sufficiente a contrastare il fenomeno e mira piuttosto ad aprire la mente dei ragazzi a futuri alternativi a quelli della vita criminale. In particolare, gli sforzi mirati all'inserimento dei membri delle bande nel mondo del lavoro vengono minati dalla discontinuità nella partecipazione, interrotta appunto da attività illecite, dalle quali gli educatori vengono “protetti”, tenuti all'oscuro, in quanto persone a cui i membri si affezionano.
Se da una parte le istituzioni dovrebbero ripensare il territorio urbano per evitare quelle concentrazioni geografiche di povertà e disagio in cui queste bande nascono, dall’altra il mondo delle associazioni può essere di supporto anche attraverso i programmi di prevenzione della dispersione scolastica e di tutte quelle forme di disagio di cui questi ragazzi sono sempre protagonisti.
Parliamo delle iniziative formative, campagne di sensibilizzazione, progetti di recupero e reinserimento sociale, attività di volontariato e laboratori artistici finalizzati al potenziamento dei talenti dei singoli, a scuola, nei centri di aggregazione giovanile e nelle strade. Per questo la scuola può allora contare su “La Terza Italia”, come ci ricorda la recente pubblicazione del Garante dell’Infanzia. Quella Italia che spesso lavora gratuitamente in modo sommerso, senza risvolti mediatici ed in grado di salvare i giovani ai margini e non respingerli poiché incompatibili con una certa idea di studente.
#chiediloanoi



Fabio I. Martinenghi